Proprio così, nella fertile valle ai piedi delle colline pisane vive ancora oggi l’eredità di un Conte, rampollo di una delle più celebri famiglie nobiliari della storia italiana. L’ultimo discendente dei Pitti, la casata fiorentina protagonista del Rinascimento, è nato e cresciuto nella Tenuta di Torre a Cenaia, l’antica Cenaja.
All’epoca la tenuta apparteneva alla Contessa Pauline de Bearn, figlia dei Conti Valery di Corsica, che la amministrava insieme al marito Charles Pitti Ferrandi. Dal loro matrimonio nacque nel 1923 Robert Pitti, ultimo rampollo di una famiglia sorta otto secoli prima e i cui componenti sono stati a più riprese protagonisti della storia italiana ed europea.
La vicenda dei Pitti comincia alla fine del Mille e cento a Semifonte, in Valdipesa: lì i più antichi documenti attestano per la prima volta la famiglia; il capostipite è Buonsignore, un ricco proprietario terriero. Il trasferimento a Firenze e l’avvio di una manifattura di stoffe di lana permettono ai Pitti di divenire in poco tempo una delle famiglie più benestanti e influenti della città; ben presto i suoi membri iniziano a ricoprire importanti cariche politiche.
Tra questi si distinse Buonaccorso, mercante e scrittore dalla vita avventurosa che fu Priore, Gonfaloniere di Giustizia, Capitano di Pisa e di Pistoia, Vicario della Valdinievole, Podestà di San Gimignano e Montepulciano. Non fu soltanto un uomo di affari e di stato, ma una figura di grande cultura e, soprattutto, un viaggiatore instancabile: nella “Cronaca” ci racconta le sue vicende politiche e diplomatiche. In modo avvincente, con uno stile che ricorda la letteratura cavalleresca, narra di molti suoi viaggi intrapresi in veste di ambasciatore di Firenze. Non mancano amori avventurosi, motteggi, episodi in cui lo ritroviamo a giocare d’azzardo o coinvolto in tumultuosi scontri armati, né situazioni in cui la nobiltà dell’epoca ci appare nelle vesti scintillanti del lusso più sfrenato. Da lui inizia la storia blasonata della famiglia: l’imperatore Roberto di Wittelsbach gli concesse l’investitura nobiliare che i suoi discendenti hanno conservato sino ad oggi.
Il figlio di Buonaccorso, Luca, fu uno dei principali sostenitori di Cosimo de’ Medici e collaborò alla riforma costituzionale del 1458. Fu lui a dare avvio, su progetto di Brunelleschi, alla costruzione dell’edificio che ancora oggi porta il nome della famiglia: Palazzo Pitti. A lui risale anche l’attuale configurazione dello stemma araldico: originariamente composto da fasce ondate d’argento in campo nero sormontate da un rastrello rosso scempio a tre pendenti, nel 1463 vi fu aggiunta la piccola croce rossa simbolo del popolo fiorentino. In quell’anno, infatti, Luca Pitti fu armato Cavaliere del Popolo da Cosimo de Medici durante una fastosa celebrazione nel Battistero di San Giovanni per aver sventato una congiura ai suoi danni. Il rastrello a tre pendenti è anche detto lambello ed è la forma più nobile di brisura adottata dalla casa d’Orleans. In Italia lo ritroviamo a partire dal 1295, introdotto probabilmente da Carlo d’Angiò e attribuito ai sostenitori più meritevoli e devoti della parte guelfa dal Re di Napoli: i Pitti poterono fregiarsene con l’investitura di Buonaccorso, il quale si vide così riconoscere i numerosi meriti della propria attività di ambasciatore presso la corte di Francia e quella imperiale.
Dopo la morte di Cosimo iniziarono i problemi per alcuni membri della casata, che si schierarono apertamente contro i Medici arrivando a partecipare a varie congiure perpetrate ai loro danni. A quella contro Piero de Medici, Luca Pitti prese parte solo in un primo momento: il duplice tradimento, di Piero da un lato e dei compagni cospiratori dall’altro, gli costò la perdita di ogni autorità politica. Ma fu con la congiura dei Pazzi del 26 aprile 1478 che la storia dei Pitti subì una svolta decisiva.
Ordita per destituire i signori di fatto della città, Giuliano e Lorenzo figli di Piero, la congiura prese corpo attorno ai principali oppositori dei Medici, la famiglia dei Pazzi, e sotto la regia di Papa Sisto IV Della Rovere. Come sappiamo terminò con l’uccisione di Giuliano e il ferimento di Lorenzo: quest’ultimo riuscì miracolosamente a salvarsi e, supportato da un inaspettato moto di popolo, a vendicarsi dei traditori nel giro di brevissimo tempo.
Tra i partecipanti alla congiura c’era anche Ferrando Pitti, il quale, dopo il disastroso esito dell’attentato ai Medici, fu costretto a fuggire da Firenze: si stabilì in Corsica, allora selvaggia isola genovese, dando così vita al ramo collaterale della famiglia che da lui prese il nome di Pitti Ferrandi, appunto i “Pitti di Ferrando”. Da quel momento il loro sangue toscano iniziò a fondersi con quello dei notabili dell’isola e, più tardi, della nobiltà francese.
Il destino ha voluto che il ramo fiorentino terminasse agli inizi dell’Ottocento: nel 1783, forse conscio della fine ormai prossima della famiglia, Ascanio Pitti di Firenze scrisse ai Pitti di Corsica una lettera di riconoscimento di parentela per “riunire onore a onore e decoro a decoro”. Ma pochi anni dopo i discendenti fiorentini di Buonaccorso si estingueranno lasciando ai Pitti Ferrandi l’unico testimone della gloriosa famiglia da tramandare ai posteri.
Per una serie di eventi accadde poi che un loro discendente tornasse a nascere e crescere in Toscana.
Siamo a metà Ottocento, la Tenuta di Torre a Cenaia è di proprietà dei conti Valery. Nel 1880 Marie-Antoinette Valery sposa il Conte Jean de Bearn: dalla loro unione nasce dieci anni dopo la Contessa Pauline de Bearn. Trovandosi ad amministrare la vasta tenuta, quest’ultima ne affida la gestione al Conte Charles Pitti Ferrandi: il loro incontro, nato dalla necessità, sarà ben presto destinato a mutarsi in ben altro. Si sposeranno pochi anni dopo e dal loro matrimonio nascerà il Conte Robert Pitti: è così che a Torre a Cenaia vede la luce l’ultimo discendente della nobile casata fiorentina.
Il suo dna è un concentrato di storia e cultura: tra i suoi antenati si annoverano i Tourville, i Laroche Foucault, i Polignac, i D’Albert, persino i fisici de Broglie e il famigerato Gastone di Foix. Nipote del Conte Biscaretti di Ruffia, tra i fondatori della Fiat, e dell’eroe di guerra Hector de Bearn, il Conte si è sempre sentito prima di tutto italiano, fiero del retaggio dei Pitti, nonostante il suo cognome venga immediatamente ricondotto al celebre palazzo fiorentino e alle sfilate di moda, che proprio lì mossero i primi passi negli anni Cinquanta: “Peccato che questo nome non sia collegato maggiormente alla storia di Firenze, e che il palazzo non venga impiegato di più per manifestazioni culturali e scientifiche e, perché no, per convegni finanziari,” ha dichiarato in una sua intervista al magazine Gentleman.
Forte di un albero genealogico che non ha niente da invidiare alla più nota nobiltà europea, il Conte ha intrapreso fin da giovane una brillante carriera diplomatica, per poi trascorrere venti anni come assistente e amico, consigliere e confidente di Edmond Rothschild, uno dei più importanti membri della celebre dinastia di banchieri di Francoforte. Con lui ha condiviso anche la sua grande passione per i viaggi e il mare, partecipando a numerose gare veliche sulle prestigiose barche del magnate tedesco. Le imbarcazioni e il mare, per il quale ha nutrito un grande amore fin dall’infanzia quando trascorreva le estati a Forte dei Marmi, sono del resto uno dei migliori contesti in cui stringere relazioni d’affari!
Ed è proprio nel mondo della finanza internazionale che il Conte ha raggiunto i massimi livelli, arrivando a far parte del comitato organizzativo dei Bildeberg meetings. Lì ha potuto entrare in confidenza con finanzieri, industriali e politici del calibro di David Rockfeller, Lord Home, Alexander Haig, Giovanni Agnelli, Marcus Wallenberg, Henry Heinz, Walter Johnson, la figlia di Churchill, la regina d’Olanda, Golda Meir, Henry Kissinger, Margaret Thatcher, Giscard d’Estaing, Mitterand, Reagan.
Queste alte frequentazioni e i numerosi viaggi non gli hanno impedito di rimanere solidamente ancorato alle proprie origini e ai luoghi a lui più cari, prima fra tutti la Tenuta Torre a Cenaia, alla quale ha accettato di prestare nome e stemma: “Per ragioni sentimentali,” ha affermato, “visto che vi ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, portandomi dietro tanti ricordi felici quando, con molto rimpianto, ci trasferimmo in Francia dopo aver venduto la tenuta”. Il legame tra gli ottimi vini che si producono a Cenaia e il suo nome lo ha reso particolarmente fiero: è così infatti che un conte Pitti, seppure senza terra e soprattutto senza palazzo, si è conquistato un posto di tutto rispetto tra i tanti baroni e marchesi dell’aristocrazia toscana del vino. E, nonostante la damnatio memoriae attuata dai Medici a danno dei suoi antenati, il Conte ha conservato la fierezza tipica dei Pitti che ancora oggi vive nella toponomastica e nell’architettura di una delle più belle città del mondo, Firenze. In piazza Pitti, di fronte al celeberrimo palazzo, lo stemma di famiglia ha resistito ai secoli: “Sono contento che, tra tante palle medicee, sulla cantonata spicchi ancora solidissimo lo stemma dei Pitti”.